LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE TI DEMEDICALIZZI"

creata il 27 aprile 2013 aggiornata il 2 maggio 2013

 

 

Le due medicine

La medicina è una misura indiretta del livello di civilizzazione raggiunto da un popolo. Si suppone che il livello di civiltà raggiunto dai Neandertal fosse elevato, prossimo a quello degli Homo sapiens, perché seppellivano i morti e curavano i feriti. Una popolazione è considerata “terzo mondo”, se l’incidenza della mortalità infantile è superiore a 10 casi su 1000. Nell’ultimo mezzo secolo in Italia tale indicatore è passato da 60 a 3,7; nell’Africa subsahariana da 250 a 100.

Tuttavia, l’indicatore medicale è grezzo. Vale in negativo. Se la mortalità infantile è alta, la civilizzazione è certamente bassa, ma non è vero il contrario: la mortalità infantile può essere bassa, e la civiltà poco umana, per esempio xenofoba e omofoba. Parlando di medicina, quindi di patologia, ha senso parlare della possibilità che la medicina stessa diventi malattia. L’autoriferimento si chiama iatrogenia e va dall’accanimento terapeutico, che contrasta la volontà di morire, alla medicalizzazione della vita psichica, quale si realizza con opere collettive come il DSM-5.

Su consiglio di Paulo Barone nelle righe che seguono fisso e sviluppo alcuni punti della discussione redazionale del 14 aprile intorno alla presentazione del numero di “aut aut” sul DSM-5 (n. 357/2013) presso l’IRPA di Milano, avvenuta il 22 marzo u.s.

In quella sede mi ha colpito la proposta, avanzata dallo psicanalista Giancarlo Ricci, di sostituire in clinica psicanalitica il momento della diagnosi con quello della prognosi. Si vorrebbe così sfuggire all’ingabbiamento classificatorio nella nosografia, salvo poi mantenere salda la tripartizione “strutturale” delle malattie mentali in perversioni, nevrosi e psicosi (senza trascurare le connesse eventualità borderline), che estende la bipartizione freudiana tra psiconevrosi da transfert e narcisistiche. L’ispirazione alla base della proposta prognostica è comprensibile ma non lodevole. Evita sì l’insulto diagnostico, a livello individuale, e la strumentalizzazione del sapere psichiatrico, a livello collettivo, con ricadute a livello giuridico ed economico (vedi sperimentazione degli psicofarmaci e problemi medicolegali connessi alle assicurazioni), ma, secondo me, si tratta di una proposta, se non ingenua, miope.

Non vede o non vuole vedere la struttura del discorso medico che, almeno in versione ippocratica, è una pratica empirica fondata su tre pilastri: diagnosi, prognosi e terapia. Sono tre fattori non indipendenti, ma più che strettamente correlati; non solo insieme stanno e insieme cadono (legame passivo) ma, se ne introduci uno nel discorso, gli altri seguono automaticamente a ruota (legame attivo). Ovviamente, non puoi curare il tifo se non hai fatto prima diagnosi di “tifo”. Ma è vero anche il viceversa. Se enfatizzi il momento della terapia e della prognosi, magari per contrapporlo al momento della diagnosi, fai già diagnosi sulla terapia ¬– che ci vuole quella e non un’altra – e convochi il discorso medico in tutta la sua interezza. In pratica lo psichiatra fa sempre diagnosi di follia sul caso singolo che ha in cura (di solito lo definisce “narcisista”), anche se non la comunica al paziente.

Il fenomeno assume una particolare evidenza collettiva in psicanalisi; oggi vediamo che a furia di enfatizzarne l’aspetto di cura, la psicanalisi è finita con il ridursi a psicoterapia individuale, quindi ad attività medica, giustamente regolamentata dalla legge delle Stato (56/89). Il “caso Basaglia” è forse ancora più convincente. Si può rimanere impigliati nel discorso medico perfino contestando le sue pratiche di cura; tipicamente in psichiatria, abolendo l’internamento del folle, si è fatta un’operazione ultimamente medica. L’apertura dei manicomi grazie alla cosiddetta legge 180 (13 maggio 1978), passata alla storia come legge Basaglia, fu ed è recepita come forma di cura della follia; ricordo, perché in quegli anni frequentavo il suo istituto, il caso di un famoso guru della psichiatria organicista, che attribuiva pubblicamente a se stesso il merito di aver promosso l’evento; parlava proprio colui che introdusse in Italia la terapia – questa sì folle – della sedazione fenotiazinica. La biopolitica gioca di questi scherzi! Tanto va ricordato per evitare ogni tentazione di politica antipsichiatrica.

Come se ne esce?

Nell’ottica di demedicalizzare l’approccio alla “vita psichica”, un tema sufficientemente trascurato dalla redazione di “aut aut”, il discorso sulla medicina va ampliato fino a toccare il (e in parte sovrapporsi al) discorso filosofico.

Parlavo prima di versione ippocratica della medicina. Ho detto che si tratta di una pratica concepita originariamente da Ippocrate come empirica, cioè fondata sulle sensazioni del medico al letto del malato (empiria oggettiva) e del malato su se stesso (empiria soggettiva). Questa estetica ingenua, poi codificata nel motto della Scuola salernitana: prima ratio est observatio, porge i dati empirici che formano il corpus della clinica medica. L’innovazione epocale di Ippocrate fu la proposta di un criterio metaempirico per organizzare la clinica in una pratica epistemica (apparentemente) coerente. Intorno al 430 a.C. circa, quando nel Corpus hippocraticum entrò il pamphlet antiempedocleo Antica medicina, tale principio trovò la prima formulazione e da allora ebbe uno strepitoso e ininterrotto consenso popolare, essendo tuttora il fondamento epistemologico del senso comune. In filosofia si chiama “principio di ragion sufficiente”; in medicina eziologia o più precisamente eziopatogenesi; in soldoni, ogni evento morboso ha una causaezio –, che lo produce lungo una catena – patogenesi – di cause ed effetti, che sono cause di altri effetti, fino all’evento finale che non è la malattia, ma il malato. (In versione ippocratica pura non esistono malattie ma malati, che sono soggetti dall’alterato equilibrio ecologico di salute).

Attenzione, non sto dicendo che il tifo non sarebbe causato dalla Salmonella tiphi. Sto dicendo che il sapere medico ippocratico è da due millenni e mezzo saldamente organizzato come scire per causas. Il fatto è storicamente più unico che raro e merita una particolare attenzione. Siamo di fronte a una singolarità storica, come fa acutamente osservare Vegetti nella sua introduzione all’opera di Ippocrate. La rivoluzione copernicana del XVI secolo mandò in frantumi la millenaria astronomia tolemaica; tutte le innovazioni tecnoscientifiche successive, dal darwinismo alla meccanica quantistica, che pure hanno rivoluzionato il modo di pensare scientifico, si sono invece agevolmente inserite nel corpo ippocratico senza minimamente modificarne l’antica ossatura. Il medico moderno continua tranquillamente a ragionare in termini di cause ambientali e individuali, in termini di stili di vita (le ippocratiche diete) e di traumi (anche se oggi si preferisce parlare di stress), esattamente come gli asclepiadi della scuola di Coo venticinque secoli fa. Il principio induttivo di confermare le cause con gli effetti non ha subito nei millenni la minima incrinatura, benché sia logicamente una fallacia. David Hume tentò di decostruirlo. Non ebbe alcun successo. Un certo Kant blindò il principio eziologico trasferendolo dal piano empirico oggettivo al piano trascendentale soggettivo, dove risulta inattaccabile. La medicina ippocratica ringrazia. Può continuare a praticare in pace la “moderna medicina” come ai tempi di Tucidide.

A proposito di storia e storici, faccio del tutto incidentalmente notare che la connessione tra anamnesi medica e approccio narrativo non andrebbe dimenticata; magari andrebbe sviluppata riprendendo in modo critico la dicotomia diltheyana tra “spiegare” (prevalentemente sincronico) e “comprendere” (prevalentemente diacronico), di cui si fanno forti le scienze umane per contrapporsi alle scienze naturali. Va in questa direzione la psicopatologia di Jaspers, che colloca la follia nell’incomprensibile, essendo un eccesso di essere rispetto al sapere. Anche la psicopatologia di Jaspers andrebbe riesaminata criticamente in redazione, mettendo sotto la lente lo stretto legame che unisce l’essenza della filosofia alla medicina e si incarna in una figura di filosofo ben precisa. Chi mi conosce, conosce la mia congettura: filosofia e medicina sono, come i nuovi realismi, saldamente fondati sull’ontologia, cioè sul discorso del potere, che stabilisce ciò che è e censura ciò che non è. Sul terreno ontologico poggiano i tre pilastri della medicina: diagnosi, prognosi e cura. Jaspers è il caso più unico che raro per verificare o falsificare questa congettura.

Qui mi fermo un attimo per chiedermi: “Ma non è paradossale che stia costruendo un’argomentazione medicale proprio nel momento in cui contesto l’approccio medicale alla vita psichica? Infatti, sto dicendo che, nel momento in cui applichiamo lo scire per causas alla vita psichica, automaticamente causiamo la sua medicalizzazione”. L’“eziologia” è l’eziologia della medicalizzazione ippocratica della vita psichica. Conosco bene questo raddoppiamento tautologico ma non ho la “ricetta” per uscirne. Lo presento come “sintomo” della profonda radicazione della mentalità medica nel modo di pensare comune (e in parte anche in quello filosofico); perfino nel mio modo di parlare della cosa, non riesco a non usare termini medici come “eziologia”, “sintomo”, “ricetta”.

Scendendo nell’autobiografia, devo dire che questa conoscenza problematica della cosa mi deriva dalla formazione freudiana. Conosco bene il paradosso di Freud, che inventò una scienza non ippocratica, la scienza dell’inconscio, ma la tradusse in termini ippocratici. Lui la chiamava metapsicologia. In realtà era un’eziopatogenesi con tanto di cause aristoteliche. Nella sua metapsicologia Freud convocò sia le cause efficienti, sotto forma di pulsioni sessuali, che producono una parvenza di soddisfazione sessuale, sia la causa finale, sotto forma di pulsione di morte che mira a istituire un equilibrio psichico… di tutto riposo. Se la psicanalisi è diventata una pratica medica, il merito è anche di Freud che la “istituzionalizzò” come professione medica. (Ci sarebbe a questo punto da affrontare il problema del legame sociale tra i professionisti della psiche, ma lo lascio deliberatamente da parte perché mi porterebbe troppo lontano).

In verità una via d’uscita dalla medicina ippocratica ci sarebbe.

Il fatto storico e geografico è che al mondo non c’è solo la medicina ippocratica. In realtà, qui e ora, altrove e in altri tempi, le medicine sono sempre state fondamentalmente due. In occidente, prima della medicina ippocratica esisteva la medicina empedoclea, che Ippocrate chiamava Antica medicina. Perché antica? Perché non era empirica. Come definirla in positivo? La direi razionalista. Perché? Perché si presentava (e tuttora si ripresenta) come physiologia, che deduce lo stato del mondo da pochi principi di ragione, necessari e universali. Secondo questa philosophia, nel mondo, cioè in natura, tutto avviene razionalmente; tutto è determinato secondo le ferree leggi del logos, che è necessario e universale prima che empirico e contingente. (Fa ancora notare Vegetti che la prima ricorrenza del termine philosophia nella letteratura greca è proprio nel testo di Antica medicina.) La filosofia medica empedoclea è un “pensiero di natura”, quindi ontologico, il quale presuppone che esista uno stato di natura (physis), di cui enuncia la legge (logos) di funzionamento, basata sulla contrapposizione degli opposti, Odio e Amore. Non ci sono cause empiriche in questa medicina filosofica, ma neppure tutto è lasciato alla pura casualità, come nell’atomismo democriteo; esistono delle ben determinate e prescritte trasformazioni logiche di combinazioni di elementi (acqua, terra, fuoco, aria) in altre combinazioni logiche di elementi. La morte non esiste; è solo una trasformazione. Per dimostrarlo Empedocle si gettò nel cratere dell’Etna, che accusò ricevuta risputando fuori i suoi sandali di bronzo. Razionale, no?

Al contrario della filosofia empedoclea vera e propria, che ebbe diversi avatar idealistici da Platone a Hegel, in occidente la medicina empedoclea non si impose sulla medicina ippocratica, che si rinforzò in versione galenica (o umorale, oggi si direbbe neuroendocrina); a parte il contributo non strettamente medico del mitico Ermete Trismegisto, emerse con la medicina alchemica di Paracelso, contemporaneo di Copernico, e si ripresentò al tramonto dell’età dei Lumi come medicina omeopatica, che cura tutto con nulla e il simile ora con il simile ora con dissimile; insomma, una medicina metaforica. Sono di fatto empedoclee, cioè razionaliste, invece, le medicine orientali, indiana e cinese, su cui non mi soffermo non avendone sufficiente conoscenza. Mi limito a far notare una possibile trappola tesa al “troppo” intelligente: contestare la medicina ippocratica, per esempio in psichiatria contestare il DSM, non porta necessariamente fuori dalla medicina; porta nell’altra medicina, quella empedoclea.

La mia competenza è nella cura psichica; lì posso dimostrare l’impatto dell’approccio empedocleo, prima in Jung e poi in Freud. E sottolineo il fatto, di per sé non negativo, caratteristico della medicina empedoclea che, applicata alla vita psichica, indebolisce tutti e tre i momenti della medicina ippocratica: non fa diagnosi né prognosi e riduce al minimo il momento terapeutico (suscitando l’ironia di Ippocrate in Antica medicina sul diritto a chiamarsi medicina).

Freud transitò dalla medicina ippocratica all’empedoclea nella seconda topica (1920), dove introdusse la pulsione di morte e la coazione a ripetere. Onestamente, all’inizio del IV capitolo di Al di là del principio di piacere (1920), riconobbe di promuovere una teoria che a un incallito empirista come lui doveva sembrare solo astrazione filosofica: Was nun folgt, ist Spekulation, oft weitausholende Spekulation (“Quel che ora segue è [pura] speculazione, spesso esorbitante speculazione”). Solo 17 anni dopo in Analisi finita e infinita (1937, cap. VI) ammise e saldò il suo debito con Empedocle. Forse si possono riscontrare antecedenti dell’influsso della medicina empedoclea su Freud nel suo antico rapporto con Fliess, il medico delle periodicità maschili e femminili. Avendo la necessità di pensare il finalismo psichico, Freud consultò i presocratici – e neanche i migliori, aggiungeva Lacan nel suo ultimo scritto, L’étourdit (1972) – forse perché mostravano di saperla lunga sullo stato di natura e il relativo pensiero. In ogni caso Freud non abbandonò mai completamente Ippocrate. Ultimamente la pulsione rimase per lui una forza in grado di ripristinare l’equilibrio psichico alterato dal trauma (Al di là del principio di piacere, cap. V).

La transizione verso la filosofia empedoclea ben più decisa e radicale fu realizzata da Jung meno di dieci anni prima di Freud, con il suo manifesto antifreudiano; si trattava di Trasformazione e simboli della libido (1912), un testo espressamente redatto contro la sessualizzazione della libido, cioè contro la riduzione del sesso a causa psichica onnipresente e pervasiva. (1) Il tema della acausalità psichica fu fondamentale in Jung; direi che fu la sua costante antiippocratica, prima che antifreudiana; arrivò fino al 1952 con La sincronicità come principio di nessi acausali. (2) La fisiologia junghiana si chiama mitologia; essa prevede integrazioni ed estensioni alchemiche e struttura la vita psichica come “vita simbolica” (l’espressione è di Jung, che sembra anticipare la foucaultiana “biopolitica”). Lo stato psichico di natura è governato da miti archetipici, non identici ma equivalenti a Est e a Ovest, in ogni civiltà. Prolungò Jung il mio maestro Lacan, il cui mito fondatore si chiamava Significante (non saussuriano ma… lacaniano), che tuttora mantiene ai miei occhi un certo suo piccolo interesse, avendo il pregio di essere un mito non antropomorfo, insieme all’incontestabile difetto di essere pesantemente logocentrico (perciò empedocleo).

Ho citato di proposito questi due grandi eretici della psicanalisi perché a loro, diversamente da tanti altri eretici, che si mantennero nell’orticello medico, recintato e presidiato da Freud, va ascritto il merito di aver demedicalizzato (deippocratizzato) la psicanalisi freudiana in modi diversi – uno più letterario, l’altro più filosofico. Sta qui l’interesse di affrontare in redazione il complicato rapporto paterno-filiale, servo-padronale, giudaico-ariano ma non solo, tra Freud e Jung. Precisamente si tratta di affrontare il rapporto tra le due medicine che si contendono il predominio sulla vita psichica: la medicina ippocratica e la medicina empedoclea, senza prendere parte né per l’una né per l’altra, né tano meno contestare o l’una o l’altra. In termini più filosofici, si tratta di prendere spunto dalla vita psichica per rivisitare l’eterno problema della filosofia occidentale: il rapporto tra razionalismo ed empirismo, tra Platone con il dito puntato in su e Aristotele con il dito puntato in giù nella Scuola di Atene, tra il primo che suppone leggi comuni dello spirito e il secondo che incornicia “quadri clinici diagnostici”, intesi come forme dell’esperienza (l’eidos ippocratico o il “disturbo” del DSM); alla fine siamo sempre lì: tra Empedocle e Ippocrate o tra antica e moderna medicina.

Da che parte sta la vita psichica? Val la pena di uscire dal Corpus hippocraticum per infilarsi nell’anima empedoclea? Esiste una terza via, meno medicale delle suddette, alla vita psichica? Se sì, mi aspetto di leggerne delle belle.

Note

(1) È paradossale che, nel momento stesso in cui attraverso le ubiquitarie pulsioni sessuali cercava di spiegare eziologicamente ogni fenomeno psichico, Freud non riuscisse a giustificare la differenza sessuale (v. unicità della libido nei due sessi). Di fatto, l'espressione "pulsioni sessuali" è impropria, perché le pulsioni non si differenziano in base al sesso né differenziano i sessi; la pulsione orale è identica nel maschietto e nella femminuccia, mentre la pulsione scopica differenzia solo genericamente il maschio dalla femmina per via della polarità attiva/passiva: il maschio sarebbe prevalentemente guardone (guardare) e la femmina tendenzialmente esibizionista (essere guardata). Una presumibile spiegazione di questo apparente paradosso la dà il fatto che l’attività eziopoietica, o l’arte di attribuire cause agli effetti, di cui la metapsicologia pulsionale è l'espressione psicanalitica principe, è una procedura essenzialmente metaforica, che procede per somiglianze, trascurando le differenze. (Torna su)

(2) Avendo indebolito le connessioni causali, Jung riesce meglio di Freud a concepire la differenza sessuale, distinguendo l’animus dall’anima. Lacan prolungherà Jung; attraverso il suo logocentrismo attribuirà la funzione del Tutto (con eccezione) al maschile e del Non Tutto al femminile. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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